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Il 15 novembre alle 13:30 ho potuto annunciare ufficialmente al mondo di essere sopravvissuto al primo viaggio in un treno cinese. Mi aspettavo di peggio, se devo essere sincero.

I treni in Cina sono per forza di cose quasi tutti a cuccette: se per andare da Milano a Napoli si può tranquillamente restare seduti per qualche ora, i tragitti tra le principali città cinesi richiede almeno una quindicina di ore di viaggio (tra Pechino e Hong Kong esattamente 24 ore).

Dall’esterno non presentano nessuna particolare caratteristica, se non fosse per la loro lunghezza spropositata. È all’interno che ho notato la grossa differenza tra queste e le nostre cuccette, ovvero l’assenza di vere e proprie separazioni. O meglio, le piccole brandine sono ordinate a sei a sei, ma non esiste nessuna vera separazione tra uno scompartimento e l’altro: il vagone è fondamentalmente un unico grande scompartimento. Forse è l’eredità della mentalità collettivista di un tempo, o forse semplicemente un modo come un altro per risparmiare sui costi di costruzione, fatto sta che nel corso del viaggio mi sono per la prima volta reso veramente conto di quanto in fondo i pechinesi somiglino agli italiani più mediterranei. Nel giro di un’ora il vagone era diventato una “grande famiglia”, con persone che facevano avanti e indietro per chiacchierare, nel tempo necessario a posare le valigie sulle piccole mensole persone che – mi è sembrato di capire – non si erano mai viste prima hanno subito creato una piccola, chiassosa comunità.

Oltre al costante chiacchiericcio e al viavai tra uno scompartimento e l’altro, l’attività principale di ognuno sembrava quella di mangiare. È un’altra caratteristica comune a praticamente tutti i cinesi: in Cina il mangiare è un’attività quasi costante, da far convivere con qualunque altra cosa si stia facendo. Una delle cose che saltano subito all’occhio in qualunque strada cinese, ad esempio, è la presenza di piccoli chioschi su ruote che vendono di tutto, dagli spiedini alle crêpes, da pezzi di carne da cuocere sul momento a dolci, dalle frittate di uova fino a una sorta di patata dolce bollita che si trova in vendita in ogni parte della Cina. L’odore che alcuni di questi chioschi riescono a esalare – in particolare quelli che vendono spuntini fritti, ovvero fritti e rifritti per ore nello stesso olio – è qualcosa di terrificante, al punto che mi chiedo seriamente come facciano le persone a farsi tentare. Comunque sia, che stia viaggiando, lavorando o anche semplicemente passeggiando, potete stare certi che il cinese avrà sempre uno spuntino nascosto da qualche parte, oppure sta apprestandosi a comprarne uno da qualche venditore ambulante.

Sul treno questa tendenza è addirittura accentuata, e i cibi che vanno per la maggiore sono delle ciotole di cartone da comprare al supermercato con dei noodles conditi con polpette o verdure, essiccati o liofilizzati: basta aggiungere dell’acqua bollente (altra presenza costante in ogni ambiente cinese, anche sul treno: i distributori di acqua bollente o i boiler pubblici) e il pasto è servito. Io, non so perché, ma di una polpetta liofilizzata che ha viaggiato per mezza Cina e sen’è stata sul fondo di una scatola di cartone per chissà quanto tempo, francamente non mi fido. Ed è un problema, perché ho imparato a mie spese che in Cina non esistono i panini. Il che, detto così, è ridicolo, ma è la pura verità: l’idea di prendere due pezzi di pane e infilarci qualcosa in mezzo non è di casa nell’impero del sol levante, salvo nei locali esplicitamente occidentali. E quindi prima di intraprendere un viaggio in treno devo arrangiarmi ogni volta con quel che trovo.

Difficoltà nel trovare del cibo e trauma dell’assenza di scompartimenti a parte, i viaggi in treno non sono così insopportabili, nemmeno quelli da 24 ore. Basta non finire in prossimità del russatore di turno e a volte si riesce anche a dormire, ma questo è vero dappertutto, non solo in Cina.

 

Dopo 24 ore esatte – questi treni sono estremamente precisi, nonostante le grandi distanze – eccoci arrivati alla stazione di Hong Kong. E la differenza, senza nemmeno aver visto il cielo della città, si sente. Per salire sul treno a Pechino ho impiegato in tutto 3 ore: essendo Hong Kong una provincia autonoma (almeno per i prossimi 46 anni, secondo gli accordi presi al momento della riunificazione avvenuta nel 1996), per il governo Cinese raggiungerla in treno è come andare all’estero. E quindi tocca passare dall’ufficio dell’emigrazione, esibire il proprio visto e, prima di poter salire sul treno, bisogna sottoporsi a dei controlli doganali. La rinomata burocrazia cinese unita a una mole umana pronta a riempire una ventina di vagoni ferroviari con valige annesse non è esattamente uno degli abbinamenti più felici della storia dell’uomo.

Alla stazione di Hong Kong invece, non so esattamente a cosa sia dovuto, ma si respira subito efficienza. Si esce dal treno e i segnali sono chiari, il personale è sorridente, le colonne sono ben definite e gli sportelli abbastanza numerosi da non essere congestionati. Nel giro di venti minuti mi ritrovo all’uscita della stazione in cerca di un taxi, pronto a recitare il solito pietoso siparietto dell’occidentale che non parla la lingua del tassista e indica un punto sulla mappa boccheggiando. E anche in questo, viva Hong Kong: appena salito a bordo il tassista mi chiede “Where to, mister?”.

Il mio ostello si trova nelle Chungking Mansions, che detto così sembra un felice miscuglio architettonico sino-vittoriano, ma in realtà non è altro che palazzone grigio costruito negli anni ’70 e degradatosi di anno in anno fino a diventare quello che è oggi: un mostro di cemento che al piano terra ospita una sorta di “galleria” al cui interno si sono stabiliti la metà dei commerci più sordidi della città, mentre nei 12 piani restanti si sono installati l’altra metà dei commerci più sordidi e una ventina di ostelli a bassissimo prezzo – per essere Hong Kong.

Per raggiungere l’ascensore che mi avrebbe portato al mio ostello era necessario attraversare metà del “suq” , e devo dire che una volta attraversato il portone ci ho preso gusto: il “suq”, il piano terra delle Chungking Mansions, è una piccola città a sé, un ecosistema di umanità pulsante, ne sono sicuro, con delle storie di vita alle spalle che farebbero invidia a qualunque avventuriero. Pochissimi gli asiatici, la maggioranza dei venditori e di quelli che semplicemente passano giornate intere seduti su uno sgabello sono indiani, arabi e neri, tutti insieme appassionatamente per dare vita al mercato più particolare e affascinante che abbia mai visto. Ci sono negozietti pieni di qualunque oggetto elettronico contraffatto si possa immaginare, da degli “iTab” a dei “Blueberry”, passando per delle copie sfacciate di prodotti Nokia, Samsung e, ovviamente e soprattutto, Apple. Ci sono gli immancabili baracchini che vendono alcoolici e cibi – specialmente indiani. Ci sono negozietti di alimentari dall’aria molto poco igienica. Ci sono negozi di abbigliamento che vendono griffe talmente “taroccate” da fare quasi tenerezza. A volerlo si potrebbe vivere nelle Chungking Mansions senza uscirne mai: dormire ai piani superiori, mangiare e fare compere nel “suq” e trovarsi un lavoro come venditore di falsi di Versace. Oppure fare il mestiere che sospetto fosse proprio alle decine di donne dall’aria non proprio salubre che vivono nelle stanze non occupate dagli ostelli.

Superato il primo momento di shock e assunta la mentalità giusta, sono quindi salito al settimo piano, dove i responsabili dell’ostello mi hanno mostrato la mia camera: un cubicolo di tre metri per meno di due, bagno (con doccia sopra il gabinetto) compreso. Chungking Style. Ho deciso di prenderla con filosofia: ho ottenuto quello per cui ho pagato (il prezzo più basso di Hong Kong), e poi sarebbe stata un ottimo incentivo per evitare di stare in camera troppo tempo.

Depositati i bagagli ho subito fatto la via a ritroso, giù per il – lenterrimo – ascensore e attraverso il “suq” per uscire su Nathan Road, la via principale di Kowloon.

So che da un certo punto di vista è orribile, ma vi anticipo subito che il mio pensiero fisso nel corso di tutta la mia visita a Hong Kong è stato “Per fortuna ci sono passati gl’inglesi”, il che – lo so benissimo – equivale a dire “Per fortuna c’è stato il colonialismo”. Io, povero turista che non parla cinese e alla sua prima timida esperienza di viaggio, io posso dirlo. Voi no. Ma se mai vi doveste fermare da quelle parti, anche voi vi ritroverete a pensarlo, e sarete perdonati perché in tutta sincerità non vedo come si potrebbe pensare altrimenti.

Tutto a Hong Kong è più semplice, più ordinato (rispetto agli standard cinesi, ovviamente), più comprensibile. E poi, praticamente tutti parlano inglese. È stato un sollievo riuscire a comunicare con le persone. Essere incapace di comunicare è un’esperienza che tutti i misantropi come me dovrebbero fare per rendersi conto di quanto avere a che fare con gli altri sia importante. Io me ne sono accorto quando, arrivato a Hong Kong, ho cominciato a sentire l’impulso a interagire con chiunque mi capitasse a tiro. Per me, che non sono mai stato uno capace di attaccar bottone con i camerieri e i negozianti, è stata una sensazione nuova. E mi sono detto che anche in questo – come in quasi ogni cosa – la via di mezzo è la più ragionevole. Il misantropo evita il contatto con le persone, spesso per un incoffessato complesso di superiorità, e questo è un atteggiamento che non ha mai portato del bene a nessuno perché il distacco da chi ci circonda porta quasi sempre a un distacco dalla nostra umanità. Dall’altra parte c’è però chi nella ricerca spasmodica del contatto con gli altri tenta solo di non restare solo con sé stesso. È in questa costante fuga dalla solitudine che si creano le condizioni ideali per la trasformazione delle persone in gusci vuoti, con una maschera brillante tutta protesa all’esterno, ma sotto la maschera il vuoto.

Credo che la via più ragionevole, come ho detto, stia nel mezzo, nel considerare gli altri come uno specchio e un complemento a noi stessi, non degli alieni da evitare, né l’unica fonte della nostra autoaffermazione.

Ma al di là della semplice – eppure fondamentale – comunicazione, Hong Kong mi ha fatto un effetto completamente diverso da Pechino.

Hong Kong, a differenza di Pechino, è una città estremamente coerente, con dei quartieri ben definiti, ognuno con le proprie caratteristiche. Il centro, chiamato appunto “Center” è la sede degli uffici, delle banche e degli enormi grattacieli, il quartiere “Admiralty” si occupa della gestione dell’enorme porto cittadino, “Soho” è la zona di bar e ristoranti. Kowloon è il nome del lembo di terra subito a nord della vera e propria isola di Hong Kong, perfettamente integrato al centro e praticamente parte di esso. È la suburb dei centri commerciali, dei mercati e dei negozi di elettronica, la zona più caotica e vitale della città, e una delle più caratteristiche, con le sue viuzze piene di insegne, i suoi negozietti e le sue bancarelle.

Una tappa praticamente obbligata appena arrivati è quella di prendere la funicolare che dal centro porta a Victoria Peak, la collina che sovrasta Hong Kong Island e dalla quale si può osservare la totalità dell’isola e di Kowloon. Il tutto è stucchevolmente turistico, a partire dalla funicolare in finto stile anni ’50 fino alla terrazza della torre d’osservazione con fotografi a pagamento e gli atroci binocoli a monetine.

La vista tuttavia vale pienamente la tortura del passaggio attraverso la torre d’osservazione stessa, piena di fast food e sede dei peggio negozi di souvenirs. E che oltretutto ospita persino una succursale del museo delle cere di Tussauds e un “Bubba Gump”, ovvero l’esempio più sfacciato e peggio riuscito dello sfruttamento a fini commerciali di una bella opera cinematografica.

Non me la sono sentita però di fare tutto il percorso a ritroso, e ho deciso di tornare “a valle” senza prendere la funicolare, percorrendo il sentiero che da Victoria Peak attraversa i boschi della collina e scende verso Soho. È stata un’esperienza istruttiva dal punto di vista urbanistico, e di come la coerenza della città possa essere a volte spietata: appena usciti dai boschi, quindi nella parte più alta della città, ci si ritrova in un quartiere formato da residence enormi e lussuosissimi, con guardie alle entrate dei cancelli, strade – private – pulite e scuole che sembrano uscite da qualche telefilm americano. Scendendo le scalinate verso il centro è però evidentissimo come ogni zona residenziale sia strettamente definita: i palazzi diventano sempre più fatiscenti e le strade sempre più sporche, e il cambiamento è così repentino che sono rimasto veramente impressionato da come in una stessa città, e a distanza di un centinaio di metri, si possano immaginare due realtà così palesemente inique.

Giunti alla fine della zona residenziale, l’ambiente cambia e mi sono ritrovato proiettato in una sorta di riproduzione delle strade napoletane, piene di piccoli negozi, piene di energia, di vita, di rumore, di “umanità”. È la zona intorno a Soho, dove si raccolgono i piccoli commercianti e i pochi artigiani rimasti, che osservano il viavai della folla dall’interno delle loro piccole botteghe. Tra tutti merita una menzione speciale l’anziano specializzato nell’arte di riparare ombrelli: seduto su uno sgabello dentro al suo piccolo capanno, in mezzo a una miriade di ombrelli rotti lui, li ripara, uno alla volta, con pazienza. Non so come faccia a sopravvivere con i proventi del suo lavoro certosino, ma vederlo mi ha fatto pensare che forse per essere veramente felici e soddisfatti nella vita bisogna scegliere un’attività, non importa quanto piccola, non importa quanto apparentemente inutile, e dedicarvisi anima e corpo. Oggi noi sappiamo fare mille cose, ma l’aumento delle nostre competenze va forse troppo a discapito della profondità e della dedizione che ogni singola azione meriterebbe. E sappiate che anche dopo anni di studi, anni di nozioni e complicazioni, a Hong Kong c’è un vecchio che sa fare una cosa sola, ma la sa fare meglio di tutti voi e me messi insieme, e per lui – probabilmente – ogni ombrello riparato è un piccolo capolavoro, è un pezzo di sé che consegna con fiducia e soddisfazione al tumulto del mondo.

 

[Post tagliato per eccesso di logorrea. Il resto di Hong Kong e Macau, tra indovini asiatici e chiese cattoliche, nella seconda parte.]


La prima meta del mio viaggio è stata proprio Pechino. Come ho detto, studiando il cinese non è facile trovare il tempo per conoscere veramente la città, e per di più io mi ero ripromesso di diluire le visite ai centri turistici pechinesi nell’arco della mia – ipotetica – permanenza di un anno.

Mi sono quindi ritrovato a dover concentrare in due settimane i preparativi per il viaggio, il regolamento dei conti con la burocrazia universitaria e le visite ai “must” turistici della città.

Ho deciso che le cose meno piacevoli vanno fatte per prime, e mi sono quindi dovuto confrontare immediatamente con il segretariato degli studenti della BLCU per annunciare il mio ritiro dall’università e ottenere il rimborso degli studi, che mi servirà per finanziare il viaggio. Ormai la ragazza responsabile degli studenti europei aveva imparato a cominciare a preoccuparsi non appena mi vedeva entrare nell’ufficio: nel corso delle prime due settimane di scuola ero stato costretto mio malgrado a farle visita una o addirittura due volte al giorno. Ha più o meno la mia età, parla inglese in maniera più che comprensibile e ha una caratteristica comune a molti cinesi: non capisce l’ironia e il sarcasmo. Lei però, essendo costretta a interagire con degli occidentali che evidentemente ne fanno uso, per non rischiare di offenderli non ridendo alle loro battute ha sviluppato un suo personalissimo sistema: ride a ogni frase del suo interlocutore. Quando le ho detto che avrei abbandonato l’università per viaggiare un po’mi ha semplicemente detto che avrei dovuto cambiare il mio visto (al momento ne avevo uno da studente). Le ho chiesto cosa sarebbe successo se me ne fossi semplicemente andato in giro con il mio visto da studente e non mi fossi più presentato a lezione. Ha riso e poi, serissima, mi ha risposto “Oh, in that case we’ll call the police”. Sul momento ho creduto che avesse finalmente imparato l’ironia, così, per osmosi. Il mio nuovo visto, valido fino al 15 novembre, è arrivato una settimana dopo.

Terminate le formalità butocratiche, mi ci sono voluti quasi due giorni per ottenere i soldi del rimborso: in un ufficio ho dovuto annunciare il mio ritiro, in un altro ho dovuto ritirare un documento, in un altro ancora ho richiesto il timbro per il documento di cui al punto due. In un quarto ufficio ho finalmente avuto accesso alla cedola che, presentata allo sportello della sezione finanziaria, mi ha permesso di avere il denaro. Se pensate che la burocrazia sia gi à odiosa in condizioni normali, questo è un buon esempio di quanto può diventarlo ancora di più quando addirittura vi debbono restituire dei soldi.

Per quanto riguarda la pianificazione del viaggio, fino all’incontro con la ragazza che ride ero convinto che sarei potuto semplicemente partire da Pechino, scendere a sud verso Shanghai e seguire un percorso circolare lungo Hong Kong, lo Yunnan, il Tibet e poi su, di nuovo verso Pechino passando per le terre del vecchio regno di Shu. La scoperta di avere un nuovo visto ridotto, valido per una sola settimana, mi ha costretto a rivalutare i miei piani: da Pechino sarei dovuto arrivare prima di tutto a Hong Kong dove, in virtù dello statuto speciale al quale la regione è sottoposta, sarei potuto rimanere in attesa di ottenere un nuovo visto turistico. Per finire, il Tibet in inverno sembra poco raccomandabile per via delle condizioni climatiche che impediscono l’accesso a molto di ciò che ci sarebbe da vedere: a malincuore ho dovuto quindi depennare Lhasa dal mio itinerario, ma mi sono ripromesso di dedicare al Tibet un viaggio nel prossimo futuro, magari passanso attraverso il Nepal che, a quanto mi è stato detto, è uno degli ultimi baluardi dell’Asia.

Per finire ho deciso che, se tutto andrà per il verso giusto (e in Cina fare dei programmi precisi è sempre un po’ azzardato), le tappe del mio tragitto saranno Hong Kong, Guilin, Kunming, Chengdu, Xi’An, Luoyang, Shanghai e, per finire, ancora qualche giorno a Pechino per salutare gli amici della BLCU e prendere il volo diretto a Milano.

Per finire i preparativi alla partenza mi sono quini dedicato a imparare il “mestiere” che mi avrebbe contraddistinto da quel giorno in poi: quello del turista. È un ruolo che non mi sento particolarmente congeniale, forse perché, per sua stessa definizione, rappresenta qualcosa che è di passaggio, che non è al suo posto, che non è propriamente là dove dovrebbe stare. A me, al contrario, la provvisorietà ha sempre messo una certa ansia, come anche la sensazione di essere fuori luogo, in un posto che non mi appartiene. Ho sempre invidiato un po’ le persone che dovunque vadano si comportano sempre come se fossero a proprio agio, quelli che non appena arrivati – arrivati dovunque – cominciano a stringere conoscenze, a parlare con le persone, e dopo mezz’ora sono già amici di tutti. Io invece impiego ore, giorni, settimane a studiare, prendere le misure, osservare tutto dall’esterno, prima di decidere se vale la pena investirmi. Sono entrambi comportamenti dettati da un certo timore: il timore di sentirsi isolati nel primo caso, la paura di non essere accettati nel secondo.

A volte mi chiedo quanti dei nostri comportamenti siano dettati da un qualche tipo di paura, e sono arrivato a pensare che, in fondo, la paura è forse la più ancestrale delle emozioni, e quindi quella che più di ogni altra condiziona le nostre azioni: la paura del giudizio degli altri, la paura di noi stessi e dei nostri limiti, la paura di non essere all’altezza, sono in fondo il motore della vita di ognuno, e quindi anche il motore della storia. Se poi ci fermiamo a riflettere che in un modo o nell’altro chiunque ci faccia un torto è mosso da una sua recondita paura, trovo sia anche più semplice imparare ad esercitare l’empatia e stemperare i conflitti.

Non che avessi paura a calarmi nel ruolo del turista, tutt’altro, ero piuttosto emozionato perché questa è la mia prima vera esperienza di viaggio in solitaria. Ma per viaggiare serenamente ho deciso che era necessario esplicitare un presupposto: “Sei un turista, accettalo”. Nei primi giorni delle mie visite a Pechino non più come studente a spasso, ma come turista con delle méte precise, ho subito cominciato a sentirmi a disagio, come se questo visitare templi e giardini fosse una sorta di violenza pari a quella dei turisti che vedevo arrivare dovunque stipati in enormi bus, scenderne, fotografare e ripartire, via, verso un nuova pagoda e un nuovo rullino. C’è modo e modo di essere un turista, io ho scelto la via di mezzo. Inutile rodersi il fegato e sentirsi vagamente in colpa per visitare una città da turista. “Sei un turista, accettalo”. Però non sono un avventuriero, sono al mio primo viaggio e per di più non sarei mai capace di comunicare in cinese, quindi un viaggio in solitaria con delle guide del posto pescate per strada era fuori discussione. D’altra parte non mi andava di seguire lo schema veni-vidi-fotografai dei turisti sui bus. La mia via di mezzo è costituita quindi dall’accettazione dello status di turista (non farò follie per trovare le vie meno battute, non eviterò a tutti i costi di visitare dei luoghi perché troppo “turistici”), ma d’altra parte me ne starò per conto mio, seguirò i miei ritmi e andrò a vedere quel che decido io, quando lo decido io.

Con queste risoluzioni in testa anche le visite a Pechino si sono fatte decisamente più sopportabili e ho imparato ciò che molti, mi pare, ancora non hanno capito, e cioé che le attrazioni turistiche non sono né un Santo Graal usa e getta (come per i “turisti da bus”), né uno specchietto per le allodole da evitare accuratamente (come sostengono i viaggiatori più cinici e “on the road”): le attrazioni turistiche sono le méte fisiche di un percorso, ma l’obiettivo del viaggiatore deve essere il percorso, non la méta. La méta è un pretesto, un punto su una mappa. È come ci si arriva che conta.

E allora ho capito che quel che dei “turisti da bus” non era tanto il “turisti” a infastidirmi, quanto il “bus”. Uno non può pensare di aver conosciuto – anche se superficialmente – una città se vi ha passato due giorni frenetici tentando di visitare tutto il visitabile, di fotografare tutto il fotografabile come se la Città Proibita, la Tour Eiffel, il Colosseo fossero dei punti sospesi nel nulla, sospesi tra un taxi e l’altro, tra una fermata di metropolitana e l’altra, tra l’aria condizionata di un bus e l’altro.

Mi sono quindi ripromesso, per quanto possibile, di arrivare dove voglio arrivare seguendo la strada più lunga. Alle strade principali preferirò un giro un po’ più lungo attraverso le stradine secondarie, e se proprio dovrò prendere la metropolitana (a Pechino, per esempio, è inevitabile), scenderò una o due fermate prima della méta. Ho trovato questo sistema piuttosto efficace, e ho scoperto che le giornate migliori sono state quelle in cui, tentando di arrivare a quel maledetto puntino sulla mappa, mi sono perso una, due, tre volte, ma almeno il mio è stato un viaggio nel viaggio.

Camminando, e perdendomi a zonzo tra le strade di Pechino, mi sono reso conto di quella che è secondo me la caratteristica più emblematica di questa città: l’inganno.

E per inganno non intendo i truffatori che ti fanno pagare una tazza di thé 50 franchi (sì, ci sono passato, prima o poi ci passano tutti), ma è piuttosto la città stessa che tenta sempre di mostrarsi per ciò che non è. Capita di trovarsi in una via piena di palazzi scintillanti, di centri commerciali e banche e poi, appena girato l’angolo – senza nemmeno cambiare strada, ma semplicemente gettando lo sguardo sul retro dei giganti di vetrate – ecco che ci si ritrova in una viuzza di hutong, ovvero delle casupole in pietra che fino a qualche decennio fa erano il volto di Pechino, ma che ora sono le case delle fasce più povere della popolazione e sono sistematicamente distrutte, un intero quartiere alla volta. La cosa curiosa è che sono sorte delle associazioni a difesa degli hutong, i cui aderenti sono per la quasi totalità stranieri.

Da una parte condivido pienamente la protezione di questi quartieri, che rappresentano le ultime vestigia del volto di Pechino per come il mondo l’ha conosciuta per centinaia di anni – e devo dire che le passeggiate nei quartieri di hutong sono tra i più bei ricordi che ho di questa città.

Dall’altra però c’è il fatto che non si può costringere delle persone a vivere in certe condizioni (con un bagno ogni quartiere, fino a tre famiglie per casupola…) per il nostro buon gusto di occidentali romantici. Ben inteso, non che i bei quartieri che sorgeranno al posto degli hutong saranno destinati agli inquilini precedenti (data la posizione centrale vi abiteranno piuttosto le nuove classi agiate, o vi sorgeranno degli uffici, mentre i poveri saranno dislocati nei casermoni popolari in periferia, ma almeno in condizioni igieniche rispettabili), però questa “diatriba degli hutong” è uno degli esempi che trovo più emblematici del conflitto tra un passato da difendere (e siamo principalmente “noi occidentali” a spingere in questo senso) e una politica del progresso a tutti i costi portata avanti dal governo cinese. E per come stanno andando le cose è facile intuire chi l’avrà vinta, anche perché, ironicamente, quel passato che i cinesi stanno letteralmente demolendo (hanno demolito) lo stanno demolendo in nome di un progresso “all’occidentale”.

 

È sempre sulla scia del modello occidentale che oggi possiamo fare i turisti a Pechino, e visitare qualche vestigia del passato (perché del presente, a mio modesto parere, c’è ben poco che valga la pena di essere visto): i dirigenti cinesi si sono resi conto, probabilmente troppo tardi, che un paese senza un passato non ha futuro. E così alcuni – pochissimi, se si considera la quantità impressionante di templi e palazzi nobiliari presenti a Pechino prima della rivoluzione – dei simboli della storia cinese sono stati sgomberati – dopo essere stati adibiti a caserme, fabbriche, caseggiati – , resi presentabili e dati in pasto ai turisti.

Il problema è che visitando attrazioni come il Palazzo d’Estate, il Tempio del Cielo o la dimora del principe Gong, ho avuto l’impressione che i responsabili si siano resi conto degli errori commessi, ma che abbiano tentato di porvi rimedio troppo in fretta, e in un modo assolutamente superficiale. L’atmosfera è artificiale, con altoparlanti nascosti qua e là a spargere una musichetta che farebbe invidia a qualunque ristorante cinese europeo, e molti edifici sono stati così palesemente ricostruiti negli ultimissimi decenni che sembra di entrare in un parco dei divertimenti in stile Gardaland, pieno di colori lucidi dal vago sapore di plastica.

Anche qui Pechino inganna: si spaccia per antico quello che è stato ricostruito una ventina d’anni fa, come – mi hanno detto – gran parte del Tempio del Cielo, o la totalità degli interni della Città Proibita.

Da una parte il fatto che il governo si sia reso conto degli errori commessi fa ben sperare. Dall’altra non riesco a evitare di chiedermi cosa pensino i “comunisti” cinesi odierni quando firmano le carte per ristrutturare un tempio o un palazzo imperiale…sorridono dell’ingenuità dei turisti, sono davvero orgogliosi del loro passato o lo fanno solo per regalare al popolo un passato epico nell’attesa di un florido futuro?Tutte e tre le cose probabilmente. È pragmatismo cinese, quello che giustifica ogni cosa fintanto che risponda positivamente alla domanda “Giova alla nazione?”.

 

Quello che non ha giovato a me è Pechino. Una città troppo caotica, troppo inquinata, troppo incoerente per rappresentare davvero un ambiente nel quale trovare qualunque equilibrio.

 

La prossima tappa è Hong Kong, nel sud della Cina, a 24 ore di treno di distanza.

 

È stato un processo più o meno graduale, piuttosto rapido se si pensa che, in totale, ho passato nella città due mesi e mezzo circa.

Il punto d’arrivo di quest processo – che è poi un punto di partenza – sono io che scrivo dentro un treno delle ferrovie cinesi, sdraiato in una cuccetta che condivido con altri cinque viaggiatori diretti a Guilin.

Ho deciso di interrompere lo studio del cinese, ho deciso di lasciare Pechino, ho deciso di partire e passare qualche tempo a conoscere la Cina per conto mio. Una decisione un po’ avventata, forse, specialmente se si considera che, come ho già detto, sono pochissimi i cinesi che parlano inglese nella capitale, e la situazione non migliora decisamente altrove.

Una decisione forse avventata, sì, e nemmeno tanto necessaria: è semplicemente che l’alternativa, ovvero restare a Pechino almeno per altri 2 mesi, ha cominciato a farsi sempre più intollerabile.

E forse sono troppo severo con questa città, forse non è Pechino a meritarsi tutto questo fiele, ma per capire il mio stato d’animo bisogna innanzitutto capire la situazione in cui ci si trova quando si studia cinese alla BLCU. Da una parte c’è la lingua, dall’altra l’ambiente studentesco. E tra l’una e l’altro il rischio è di rimanere schiacciati come tra l’incudine e il martello.

Il cinese, tanto per cominciare, non è difficile: di più. Personalmente, che per inciso parlo più che egregiamente tre lingue e ne sbrodolo una quarta, mi sono trovato come lanciato in mare aperto senza alcun appiglio. Non che gli insegnanti e il loro sistema di apprendimento facciano nulla di particolare per semplificare le cose. Una classica lezione di cinese in Cina (mi dicono che è così più o meno dovunque) è un continuo susseguirsi di due fasi: nella prima l’insegnante legge, pronuncia e/o scrive delle parole, nella seconda la classe – in coro o uno alla volta – ripete. Il tempo dedicato alla comprensione della struttura delle frasi è fondamentalmente inesistente, le regole grammaticali sono meno che abbozzate: la frase più ricorrente delle nostre “laoshi” (e, in un caso su tre, anche una delle pochissime che riusciva a pronunciare in inglese) era “follow me”. Ora, se esistesse un partito deciso ad abolire qualunque interazione attiva tra chi sta su una cattedra e chi sta sotto, io lo voterei. Giuro. Io sono uno di quegli studenti che ama farsi gli affari suoi, ascolto quando mi va, quando mi stufo voglio essere libero di essere disattento. Non in maniera irrispettosa, non disturbando gli altri, ma semplicemente voglio essere libero di andarmene altrove con il cervello. In fondo il tempo è il mio. Non ho mai capito questa pretesa tipica della scuola di irreggimentare l’attenzione degli allievi, questo tentativo di omoloogare i ritmi di apprendimento: ognuno ha i suoi ritmi, è inutile costringere un cervello ad assorbire qualcosa se quel cervello ha deciso che non è il momento.

Insegnare è come trovarsi davanti a venti-trenta-cento bicchieri dalle forme e capienze diverse. Quello che fa la scuola attuale è tentare di riempirli tutti allo stesso modo, riversando sopra a ognuno indiscriminatemente una cascata di acqua, e pretendere che ognuno dei bicchieri si riempia al punto giusto. Ma come si può pensare che questo metodo possa funzionare? Alcuni si riempirebbero dopo pochi secondi e bisognerebbe lasciar loro il tempo di svuotarsi per poi essere riempiti di nuovo, altri sarebbero forse capaci di restare sotto l’acquazzone per ore, altri ancora potrebbero avere delle falle che ne rallentano inutilmente il riempimento e che andrebbero prima riparate.

La scuola di oggi, con il suo sistema a cascata, perde acqua da tutte le parti.

La scuola cinese ancora di più: il ritmo è serrato, il controllo sugli allievi è continuo. Non si ha il tempo di prendersi del tempo, perché l’insegnante chiama alla lavagna e interroga continuamente, non si ha il tempo di riflettere su una parola o una regola, perché già mezz’ora dopo quella parola, quella regola sono considerate apprese. C’è appena il tempo per memorizzare, ma quel che manca è il tempo per assorbire.

Un ragazzo che ho conosciuto, Joeri, è rimasto deluso dal risultato del suo esame intermedio: ha ottenuto un ottimo punteggio. Solo che lui si rendeva conto di non riuscire minimamente a comunicare, nemmeno per ordinare da bere al bar (lezione 3): quel buon voto significava che il suo livello di cinese, sulla carta accettabile, non serviva a nulla nella vita reale, significava che quello che da un punto di vista dell’utilità pratica era un fallimento, dal punto di vista accademico era una missione compiuta (e tra l’altro anche questo – la differenza spesso abissale tra la certificazione delle conoscenze e l’effettivo livello di competenza – è un altro problema della scuola di oggi, ma non è questo il tempo e il luogo per discuterne) !

Questo non è vero solo per gli stranieri che imparano il cinese, ma anche per i cinesi che imparano l’inglese. Un neologismo molto in voga tra gli studenti di lingue in Cina è il termine “chinglish”, ovvero il modo di (non)parlare inglese proprio di molti studenti cinesi, che conoscono il significato di una quantità di parole probabilmente superiore a quelle di un americano medio, ma non hanno idea di come metterle insieme. La loro comunicazione si riduce quindi fondamenalmente a un’accozzaglia di parole in ordine sparso, spesso al limite dell’incomprensibile.

Fatto sta che il cinese, pur essendo complicatissimo, è pur sempre “imparabile”: ho conosciuto persone capaci di comunicare dopo un anno di studio facendo appello a un buon “tutor” e ad almeno cinque ore di studio giornaliero in solitaria.

La domanda a questo punto è capire se valga la pena di passare un anno in un paese straniero e potenzialmente interessante facendo avanti e indietro tra l’università, la biblioteca e i bar “da occidentali”.

Sì, perché come ho detto, la seconda cosa con cui tocca fare i conti è l’ambiente degli “expat”, ovvero degli stranieri venuti all’estero – in Cina – per studiare o lavorare. So che a descrivere un gruppo così largo di persone si rischia sempre di generalizzare e fare torto a qualcuno, ma è un rischio che ho deciso di prendere. La premessa è che in ogni gruppo ci sono sempre e comunque delle eccezioni, e io ho avuto la fortuna di incontrarne qualcuna. Asbjorn, per esempio, è un ragazzo danese che mentre viaggiava nel Sud della Cina ha incontrato una ragazza, Qiong. Quando si dice “colpo di fulmine”: i due si sono visti, si sono conosciuti, si sono piaciuti e hanno mantenuto una relazione a distanza – tra Sichuan e Danimarca – per un anno intero. Ora vivono insieme a Pechino, dove si sono trasferiti lei per lavoro, lui per studiare una lingua immerso in una cultura alla quale non si sente per nulla legato, se non fosse per Qiong.

Una storia sincera e pulita, come se ne vedono poche a Pechino in questo ambiente. E quando dico poche intendo pochissime. Il più delle volte le relazioni tra ragazzi stranieri (e si tratta principalmente di maschi) e ragazze cinesi si riducono a qualcosa che si avvicina molto a una sorta di prostituzione, con la differenza che in questo caso le ragazze non hanno alcuna garanzia di essere pagate. Il sogno nel cassetto delle ragazze cinesi è, a quanto pare, quello di incontrare un uomo che le porti via dalla Cina: Europa, Australia o America, poco importa.

È come un grottesco gioco dalle regole prestabilite: le ragazze sanno cosa gli expat desiderano, e sono disposte a offrirsi per avere la minima possibilità di incontrare qualcuno che se le porti a casa, fuori dalla Cina. Dall’altra parte, i giovani stranieri non hanno che l’imbarazzo della scelta e nessun obbligo annesso.

E non voglio passare per un puritano (ognuno è liberissimo di disporre del proprio corpo come meglio crede), ma non riuscivo – e non riesco – a non provare una sensazione tra la compassione e il fastidio nel vedere, davanti alle discoteche più in voga tra gli studenti stranieri, file di ragazze cinesi (s)vestite come nei più misogini videoclip musicali americani e, dall’altra parte, mute di chiassosi ragazzotti stranieri ubriachi intenti a ispezionare gli oggetti del loro divertimento per quella serata.

 

A parte ciò, la Cina si appresta – ormai chiunque ne è a conoscenza – a diventare la prossima superpotenza mondiale, da un punto di vista politico, miliare, ma specialmente economico. La conseguenza è che la maggior parte degli stranieri che vengono a imparare il cinese in loco lo fanno per ragioni di opportunità economica, punto e basta. Nella migliore delle ipotesi hanno un’infarinatura di cultura cinese, nella peggiore non hanno nessunissimo interesse in qualunque cosa che non sia “business”. Alla mia domanda “Ma perché sei venuto qui a imparare il cinese?”, non c’è nessuno che non abbia farfugliato qualche frase contenente le parole “business” “global economy” “world power” e, nella peggiore delle ipotesi “import-export”. Le uniche eccezioni sono Asbjorn (quando mi ha risposto “per una donna” l’avrei abbracciato, se il contatto fisico con altri esseri umani non mi fosse fastidioso) e una ragazza laureata in lettere, venuta a imparare il cinese per leggere i classici in lingua originale. Per molti expat (ma, ripeto, non per tutti), sono convnto che vivere in Cina non sia che un fastidioso inconveniente necessario per arricchirsi facendo affari con i cinesi.

Ammetto che anche per me la scelta di venire in Cina non è stato solo un interesse culturale: senza dubbio l’idea di aprirsi qualche possibilità lavorativa futura ha avuto un certo peso. Fatto sta che, immerso in un ambiente dove la stragrande maggioranza delle persone sono più interessate al business che alla cultura, mi sono reso conto di quanto ciò sia sbagliato, o quantomeno di quanto questa logica mi sia estranea.

Non riesco davvero a giustificare questa pirateria commerciale, questo corsarismo economico: come si fa a venire in un paese, prendere quello che c’è da prendere giusto per guadagnare 30 denari e poi disinteressarsi del contesto?

Ho deciso che, se davvero dovrò dedicare almeno un anno della mia vita (ma per raggiungere un livello accettabile se ne consigliano almeno due) a studiare questa lingua impossibile, passando da una bolla all’altra (scuola, locali per occidentali, casa), prima voglio provare a esplorarne il contesto, voglio lanciare un’occhiata a quello che c’è intorno.

Invece di passare un anno sui libri, ho quindi deciso di provare a trascorrere un mese e mezzo con una valigia in una mano, un dizionario nell’altra e viaggiare un po’ per la Cina.

 

Pubblico una lettera che ho scritto a Francesca, che mi aveva chiesto di inviarle le mie impressioni su Pechino per poi pubblicarle sulla rivista del Centro Cinese di Lugano. Non ero sicuro di volerla pubblicare – i toni sono forse eccessivamente pessimistici – ma poi ho pensato che è mio dovere rendere giustizia anche alle mie sensazioni negative. Se non altro perché rileggendo questo blog vorrei riuscire a ricostruire le fasi della mia permanenza a Pechino, senza autocensure.

“Cara Francesca,

Quando ci siamo incontrati al Centro Cinese e mi hai chiesto di scrivere un articolo per la vostra rivista ho accettato con entusiasmo: trasmettere le mie impressioni a dei lettori è probabilmente la cosa che mi dà più soddisfazione e, come sai, mi piacerebbe rendere questa mia passione una ragione di vita.

Oggi, a quasi un mese di distanza, mi chiedo se scrivere quell’articolo abbia ancora un senso. Perché dovrei scrivere qualcosa quando ho così poco di positivo da esprimere?Il lettore non ha forse già i suoi problemi, le sue preoccupazioni, senza bisogno di andarsi a sorbire qualche riga scritta da uno che mentre scrive si sente così disilluso?

Sono arrivato a Pechino due settimane fa, in quella che era una fuga da una mentalità – quella “occidentale” – che mi era divenuta insopportabile: materialismo, politica, stress, burocrazia e, specialmente, la sensazione di vivere dentro una immensa caserma avevano cominciato a formare una cappa, come di fuliggine, sopra i miei pensieri. È possibile, mi chiedevo, vivere in una società così frettolosa, così superficiale, così ripiegata, in una folle e cieca riproduzione di sé? È possibile trovare la felicità, o quantomeno tentare di costruirsi uno spazio per il proprio esperimento di felicità individuale, in questo caos di costrizioni, di scadenze, di competizione quotidiana con il mondo e con gli altri? In altre parole, esiste nel nostro “Occidente” la libertà di inventarsi una felicità che non ricalchi gli schemi del nostro beneamato capitalismo, siamo liberi di cercare una felicità che vada oltre il denaro, una villa, una fetta del Potere, dei bei vestiti, l’iPhone e l’ultimo gadget elettronico?Non avevo una risposta allora come non l’ho adesso. Quel che è sicuro è però che, anche tra chi ha tutte queste cose, gli adulti felici che ho conosciuto nella mia vita si possono contare sulle dita di una mano.

E, al diavolo la responsabilità individuale, do la colpa al sistema, che è qualcosa più della somma delle sue parti. È una locomotiva impazzita che sfreccia su dei binari di cristallo.

Ma se i casi di depressione sono in aumento a livello europeo, insieme con l’alcoolismo giovanile e il consumo di droghe, un motivo ci sarà. E senza tentare di dissezionare tutti questi fenomeni con il bisturi del sociologo o dello psicologo, l’unica considerazione che un “uomo della strada” come me può fare è: qualcosa non va.

Ed eccomi a Pechino, dall’altra parte del globo terrestre, nel cuore di quella che sarà la prossima superpotenza mondiale, nella futura Washington. Ma anche nella capitale di un paese con una storia e una cultura millenaria, con una saggezza che, mentre noi eravamo impegnati ad autoflagellarci per i peccati di Adamo ed Eva, ha inventato – o quantomeno, ha accolto e contribuito a sviluppare – il buddhismo, una civiltà che per secoli è stata più avanzata della nostra non solo da un punto di vista tecnologico, ma anche – e specialmente – spirituale. .

E sai che c’è, Francesca?C’è che mi sembra di essere in Europa o, peggio, negli Stati Uniti. E, non essendoci stato che una sola volta, quando io parlo di Stati Uniti parlo del loro stereotipo, che è – se possibile – ancora peggio della realtà.

Pechino è una metropoli gigantesca, ma non è una metropoli cinese. È una metropoli e basta, abitata da cinesi, ma con un cuore che non ha nulla a che vedere con l’anima storica di questa civiltà.

Abito al ventesimo piano di un palazzo che dà su un supermarket al cui pianterreno c’è un Kentucky Fried Chicken, con il faccione del colonnello Sanders che – americanissimo – sorride. Dall’altra parte della strada, c’è un Mac Donalds e, alzando lo sguardo, non si può non notare un immenso grattacielo pieno di vetrate con la scritta “Microsoft”. Per andare a scuola, ogni mattina passo davanti a un Subway, un Pizza Hut e un centro commerciale per ricchi. Tra gli altri, al suo interno ci sono un negozio di orologi Vacheron Constantin e una boutique – se ricordo bene – di Louis Vuitton. Lungo il marciapiede mi aggrediscono quotidianamente decine di cartelloni pubblicitari; tra i prodotti felicemente rappresentati da famiglie sorridenti, colori sgargianti e attori in pose plastiche, ci sono Mister Muscolo, i vestiti H&M, l’iPhone e diverse marche di detersivi. La metropolitana, poi, è un capolavoro: dei piccoli schermi trasmettono continuamente degli spot pubblicitari, tra i quali spicca per sagacia quello in cui un sedicente maestro zen invita, dopo una lunga meditazione, a comprare un succo d’arancia venduto dentro bottiglie di plastica da 5 litri.

È solo pubblicità, forse, non significa nulla, dirai tu. Eppure questa appropriazione dello spazio urbano da parte di questi signori prepotenti e intrusivi è un segno preoccupante dell’omologazione mondiale delle città. A Milano come a Ginevra, passando per Parigi e gli Stati Uniti e, adesso, anche a Pechino, questi cartelloni sono gli stessi ovunque. Cambia la modella in copertina – eppure non riesco a liberarmi dall’impressione che le ragazze nelle pubblicità cinesi siano state ritoccate per sembrare “occidentali” – cambia la lingua, ma il linguaggio è lo stesso, le sue conseguenze sono identiche: fare leva sugli istinti per spingere a comprare, a desiderare, a identificarsi con un modello che – già esportato dagli Stati Uniti all’Europa – si sta imponendo anche qui, e con un certo successo.

Le persone, Francesca, sono le stesse che speravo di lasciarmi alle spalle. O, quantomeno, si comportano nello stesso modo. La strada è frenetica, i ritmi forsennati: non ho mai visto delle porte della metropolitana chiudersi così velocemente, né dei semafori passare da rossi a verdi in così poco tempo. Per strada la gente corre, c’è sempre una scadenza, ci sono sempre degli orari da rispettare. E i soldi sono un’ossessione: dai venditori ambulanti che tentano di vendere qualsiasi cosa, alle persone con le quali ho parlato, l’obiettivo primario di ognuno sembra quello di fare soldi, di diventare proprietario di un’azienda, o quantomeno di diventare un manager.

Che fine ha fatto il passato, in tutto questo?Che fine hanno fatto i chilometri, le differenze, una cultura millenaria?

Cara Francesca, Pechino è una metropoli occidentale. È una grande metropoli, con più persone, più automobili, più grattacieli, più inquinamento, più rumore.

Intendiamoci, delle differenze ci sono: si parla una lingua diversa, si mangia con le bacchette, non si divide mai il conto al ristorante, si salutano prima i più anziani, ma queste sono differenze cosmetiche, che hanno quasi del folkloristico. L’anima della città e dei suoi abitanti non è diversa dalla nostra, o meglio, si è omologata alla nostra.

Mi ribatterai che la Cina non è Pechino. Che c’è ancora del buono, del diverso in questo immenso paese. Ma se la Cina è il futuro del mondo, Pechino è il futuro della Cina. Nessuno dei ragazzi che ho conosciuto è Pechinese: tutti sono costretti a venire a Pechino da ogni parte del paese perché altrove “non ci sono opportunità”. Il modello di Pechino, di Shangai, di Hong Kong, questi sono il futuro della Cina.

E questo modello di società, questo modello di sviluppo di cui Pechino è un tristissimo esempio, è una copia del nostro. Una brutta copia.

Perché – come da noi – qui il mercato è dappertutto, ma i diritti politici sono inesistenti. Perché – come da noi – ogni cosa si compra e so vende, ma il controllo dello Stato sulle persone, seppur camuffato, è strettissimo.

Capisci quello che voglio dire?Sono venuto in Cina per allontanarmi dallo “spirito del XX secolo”, per conoscere il suo successore. E ci ho visto uno specchio deformante.

Ti rendi conto che mentre la nostra società si disgrega, mentre ci trasformiamo in una società piena di tecnologia ma poverissima di felicità, qui stanno preparandosi a ricevere lo scettro di questo preciso sistema, e a riprodurlo per ancora – chessò – un centinaio d’anni? Per quanto potremo andare avanti ancora con questo gioco, dove una superpotenza prende il posto dell’altra nel trascinare sulle rotaie incerte della nostra “evoluzione” questo carretto acciaccato che dovrebbe rappresentare il nostro modello di società?

Volevo conoscere il futuro, mi sono ritrovato ricacciato a forza nel passato. E se ancora qualcuno non l’avesse capito, se ancora qualcuno stesse gongolando per la crescita del PIL cinese, se qualcuno stesse ancora fregandosi le mani pensando alle opportunità che si aprono in questo paese, allora mi sento in dovere di ricordargli che sta brindando al passato, a questo stantio, rancido passato che non ha altra meta se non l’imbarbarimento dell’essere umano.

Volevi un articolo, hai ricevuto una lettera.

Non è la stessa cosa, ma almeno ti rende più agevole il compito di dire che, in fondo, quell’articolo non si ha da fare.

A presto,

Gabriele”

Esattamente una settimana fa sono andato – da solo, imperdonabile errore – nel quartiere Zhong Guan Cun, quella che ormai tutti chiamano la “Silicon Valley della Cina”. Appena fuori dalla fermata della metropolitana sono stato letteralmente inghiottito da una marea di vetrate a specchio, cartelloni pubblicitari con donne ammiccanti, attori famosi (m’è sembrato di intravvedere Jackie Chan), telefonini e computer portatili. La pessima idea dell’inoltrarsi in questa giungla pubblicitaria da solo, e senza sapere una parola di cinese, è stata peggiorata ulteriormente dall’orario: la mattina alle 9 i turisti tendono a dormire o a visitare palazzi storici. Ero quindi probabilmente l’unico occidentale nel raggio di qualche chilometro. Sono entrato in un colosso di metallo a caso, e mi sono trovato letteralmente sommerso da una muta di commessi: per me, che già mi sento profondamente a disagio in un posto come Balmelli (i luganesi mi hanno capito), è stato uno shock culturale. Perché questi centri commerciali non sono dei grandi super-market, ma piuttosto degli immensi mercati in un involucro moderno, dei suq dell’hi-tech. Su ogni – immenso – piano sono distribuite decine e decine di minuscole bancarelle che non occupano più di tre metri quadri l’una, ognuna delle quali vende praticamente ogni cosa, dalle macchine fotografiche ai cellulari, passando per i computer portatili e le videocamere. Il problema è evidente: ogni singolo venditore non ha praticamente nessun modo per farsi notare dal cliente (nemmeno i prezzi che, per ovvie ragioni di contrattazione, non sono esposti), quindi l’unico sistema è quello di urlare più forte e trascinare il cliente, a volte persino con la forza, verso il proprio piccolo bancone. Inutile dire che gli occidentali sono la “preda” preferita da ogni commerciante.

Questa “cicatrice” della differenza fisica è qualcosa di cui non mi ero ancora mai reso conto, e come me, scommetto che molti “occidentali” non ci hanno mai riflettuto troppo. In fondo in Europa è difficile affermare con sicurezza la provenienza di una persona: persino un ragazzo biondo con gli occhi azzurri potrebbe rivelarsi siciliano e non svedese, e una ragazza di carnagione bruna ha le stesse probabilità di essere originaria della Calabria come del Portogallo. È anche per questo che a volte troviamo qualche difficoltà nel comprendere il significato di alcune guerre che scoppiano – ad esempio – in Africa, dove l’appartenenza a un’etnia è marchiata a fuoco in ogni ruga della fronte, in ogni incavatura sotto gli zigomi. Ciò non toglie che anche nel nostro civilissimo e ormai globalizzato continente siamo sempre più esposti a questo genere di “shock”, e anche chi afferma di non essere “razzista”non può negare che il nostro stesso cervello utilizza alcuni tratti fisici e somatici per caratterizzare le persone: così la caratteristica saliente di una persona “di colore” (ma quale “colore”, poi, non si sa, come se “noialtri” fossimo il termine di paragone universale) sarà il suo essere “di colore”, un “arabo” sarà innanzitutto un “arabo”, uno “slavo” sarà uno “slavo”. Chi fa parte della “maggioranza” non si rende conto di cosa significhi portare direttamente nel proprio corpo il segno visibile del “diverso”. Bisogna essere un “occidentale” in Asia, o in Africa, per capirlo, nel bene e nel male.

Qualche giorno fa stavo parlando al telefono appoggiato a un muro, quando vedo due ragazzi – credo vietnamiti – che, uno da destra e uno da sinistra, mi si affiancano di soppiatto. Istintivamente porto la mano al portafoglio (i borseggiatori non mancano a Pechino), ma sono curioso di vedere cosa sta succedendo, quindi non mi muovo. Dopo un paio di minuti di abbordaggio, ecco che me li trovo proprio a fianco. È solo a questo punto che un tizio che non avevo notato, dritto di fronte a me, tira fuori una macchina fotografica e ci scatta una foto, a me e ai due ragazzi sorridenti che, finita l’operazione, se ne vanno come se nulla fosse. Mi diverte pensare che una mia foto di me con uno sguardo attonito è appiccicata nell’album di qualche famiglia vietnamita, e chissà come diranno di avermi conosciuto!Mi avessero almeno chiesto quale invenzione volevo che propinassero ai loro amici a casa sul mio conto!

Ma oltre agli aneddoti simpatici, bisogna anche fare i conti con qualche fastidio: gli sguardi insistenti delle persone in metropolitana, l’atteggiamento esplicitamente intollerante di alcuni negozianti e, appunto, l’impossibilità di passare inosservato in mezzo a una folla in generale – e di clienti in particolare.

Il fatto è che siamo tutti abituati, anche se spesso inconsciamente, a cogliere una caratteristica fisica preponderante e attribuire automaticamente alla persona in questione tutta una serie di attributi che ci sono stati suggeriti dai nostri modelli culturali. E in fondo è questo il nocciolo del razzismo cattivo e della xenofobia: appiattire l’individuo, riducendolo a una caricatura che si accorda con la nostra matrice mentale.

Non è fingendo di ignorare le differenze che si risolve il problema (credo che nessuno sia più ipocrita di chi sostiene di “non far caso” alle caratteristiche fisiche altrui), ma piuttosto prendendo coscienza del fatto che ogni uomo è un cosmo di una complessità meravigliosa, e tanto quanto nessuna teoria, nessun credo riuscirà mai a stabilire una legge che spieghi l’Universo in funzione di una sola variabile, così nulla sarà mai in grado di ridurre l’Uomo (che, tra l’altro, secondo la filosofia taoista è un’immagine perfetta dell’Universo) a una sola dimensione. È così che, paradossalmente, l’unica ragione per cui potrebbe davvero avverarsi la previsione dello “shock delle civiltà” è perché è stata enunciata una teoria becera come quella dello “shock delle civiltà”. Come spesso accade, il modo migliore per conoscere – in questo caso conoscere “l’altro” – è il disimparare, ovvero il rimuovere tutte le nozioni, i preconcetti, gli automatismi mentali che ci sono stati inculcati: una mente vuota è l’unico modo per avere una mente libera.

Comunque sia, quali che fossero i preconcetti che i commercianti dello Zhong Guan Cun hanno nei confronti degli occidentali, dopo un quarto d’ora di “Mister, cameras” e “Mister, buy computer”, ho smesso di girare a vuoto e mi sono fermato dal primo commerciante che mi ha visto passare senza urlarmi qualcosa nelle orecchie. Vendeva accessori per cellulari. Pur non avendone bisogno, ho comprato una custodia per il telefono. Tre euro circa, ma considerata la soddisfazione di aver sconfitto le leggi della giungla m’è sembrato il più grande acquisto della mia vita.

Prima settimana a Pechino. Probabilmente la più stressante della mia vita, nel bene e nel male.

Arrivi qua e sei convinto che tutto sia in ordine, che basti regolare qualche formalità per cominciare pacificamente il tuo corso di cinese. Ma, almeno per quel che ho visto finora, in Cina nulla è semplice, nessuna procedura è mai scontata: c’è sempre qualche intoppo, qualcosa che manca, qualcosa di troppo. Il che non è necessariamente un male: essere catapultato dall’altra parte del mondo e dover fare da sé dopo 21 anni di esistenza all’ombra di una famiglia tende a farti scoprire delle energie che non sapevi di avere. È come un secondo parto.

I primi tre ostacoli con i quali mi sono scontrato, già dalla mattina di lunedì, sono il caos cittadino, la lingua e la burocrazia.

Appena uscito dall’albergo – che fa parte di una catena cinese e dove sono l’unico occidentale, il che mi diverte e sembra divertire anche tutti quelli che mi incrociano nei corridoi o nella minuscola hall – le strade di Pechino mi hanno lasciato letteralmente di sasso. Quelle più grandi hanno quattro corsie, due interne per le automobili – che coerentemente con lo sviluppo economico e la crescita della popolazione sono un numero spropositato – e due esterne per le biciclette. Dopo aver visitato Napoli credevo che on avrei mai visto un caos automobilistico di quella portata ma, in confronto ai pechinesi, i napoletani sono una manciata di placide vecchiette sulla strada per la messa: le corsie interne sono una sorta di zona franca, dove i clacson hanno la stessa funzione dei ruggiti nella savana, ovvero avvertire – e atterrire – chiunque si trovi nei dintorni, mantenendo tutti a una distanza “accettabile”. I pragmatici cinesi hanno anche trovato – da quel che mi sembra di capire – una soluzione eccezionale per quanto riguarda l’attraversamento delle strisce pedonali: quando la massa di persone sul marciapiede ha raggiunto la massa critica ci si sposta tutti insieme verso il marciapiede opposto, costringendo gli automobilisti a fermarsi. Qui, il numero è tutto, e i semafori pedonali sono poco meno di un consiglio.

Ma il vero spettacolo delle strade pechinesi sono le biciclette: proprio a causa delle particolari “norme” di attraversamento delle strade, il ritmo delle corsie laterali è scandito da nugoli composti da decine e decine di biciclette, motorini, bici elettriche. Sembra la partenza di una competizione sportiva, se non fosse che nella maggior parte dei casi i mezzi cadono letteralmente a pezzi. Una bicicletta che in Svizzera sarebbe già finita in qualche discarica, a Pechino è quella che ti porta al lavoro ogni mattina. E a ogni incrocio ci sono dei “meccanici” pronti, con un semplice sgabello e una cassetta degli attrezzi, a riparare le bici di quelli che, per qualche guasto, al lavoro rischiano di non arrivarci. Questa è una caratteristica che mi sembra particolarmente presente in questa città: l’imprenditorialità, il senso dell’opportunità, della previsione sono delle doti sviluppatissime, e così ci sono meccanici sui bordi delle strade (casomai si rompesse la bici), ma anche dei fotografi muniti di stampante portatile vicino agli uffici per i visti (casomai avessi dimenticato di portare le foto “formato passaporto”) . Il pensare all’imprevisto, a ogni eventualità, e sfruttarla a proprio vantaggio, questa è un’arte. Anche se forse non è una caratteristica cinese, ma piuttosto di tutte quelle società che si sono appena aperte al capitalismo: intraprendenza, iniziativa, immaginazione. Poi pian piano tutto si fossilizza, e la gente finisce a lavorare in banca o nei supermercati, ma il “nonno che riparava le bici per strada” potrebbe facilmente essere il corrispettivo cinese dell’americanissimo “nonno che vendeva le noccioline ai passanti”.

Sopravvissuto alla giungla urbana pechinese e arrivato indenne all’università, ho poi fatto la piacevole conoscenza della burocrazia cinese. Sono arrivato alla conclusione che per avere un assaggio dell’anima di una Nazione bisogna passare per le grinfie della sua burocrazia. La burocrazia svizzera?Efficientissima, ma asettica. La burocrazia italiana?Svogliata, apatica, ma quantomeno di poche pretese formali. La burocrazia cinese è rigida e dalla ferrea scala gerarchica: nessuno dei sottoposti ha la più vaga idea del quadro completo, ognuno svolge il suo compito, e il suo soltanto. È la grande debolezza, di tutti i regimi autoritari: da una parte dei sottoposti deresponsabilizzati e irreggimentati, incapaci di prendere decisioni autonome. Dall’altra una centralizzazione esasperata delle responsabilità di decisione, col risultato che anche una minima falla nel cervello del “mostro” porta tutto il meccanismo a sfasciarsi sotto il proprio stesso peso. La burocrazia cinese è proprio così: esistono regole rigidissime, e se il responsabile non c’è, è malato, in vacanza o semplicemente irraggiungibile, non esiste nessun modo per ottenere quello che si desidera. Provare per credere. Il risultato è che allo stato attuale delle cose non sono ancora riuscito ad andare a lezione e, salvo ulteriori intoppi, spero di farcela domani.

A peggiorare la situazione c’è questo enorme macigno della lingua: mai prima d’ora mi ero ritrovato a non riuscire a comunicare. La comunicazione, per me come per la maggior parte di noi noi, è un fatto scontato. Cresciamo in un ambiente dove si parla un certo linguaggio, lo impariamo e probabilmente saremo a posto per il resto della vita. Male che vada ci troveremo a studiare in una lingua che abbiamo cominciato a studiare alle scuole elementari o medie. Ma trovarmi di fronte a una persona che non ha idea di quello che sto dicendo, e viceversa, è un’esperienza del tutto nuova. I cinesi che capiscono l’inglese sono pochissimi, anche nelle università per stranieri. I taxisti che parlano inglese praticamente non esistono, come non esistono i commessi dei negozi che anche solo capiscano la parola “english”. Per uno come me, che si è commosso guardando Moretti urlare “Le parole sono importanti”, per me che devo sempre trovare la parola esatta da usare in un determinato contesto, quella della lingua è una barriera ben più imponente della Grande Muraglia. Quindi, almeno per il momento, sto imparando a comunicare a gesti. Ed è incredibile quello che si riesce a dire in questo modo. È un’esperienza da fare, qualche volta, se non altro per renderci conto di come tutti gli uomini condividono almeno questo stesso corpo, e la comprensione intuitiva dei suoi movimenti. Che un gesto voglia dire mangiare, un altro dormire, un altro bere, un altro leggere, e che questi messaggi siano condivisi da chiunque, anche dall’altra parte del mondo, è qualcosa che fa riflettere, è qualcosa che può apparire scontato, ma non lo è: come faccio a considerare irrimediabilmente diverso uno che, al di là della cultura, di migliaia di chilometri e della Storia, riesce comunque a capirmi quando gli chiedo del cibo, o dell’acqua?

E tentando di comunicare a gesti mi è anche venuto in mente un video che ho visto qualche anno fa. C’erano uno studioso coranico iracheno, un vecchio con una barba lunghissima e un copricapo simile a un turbante, e un professore dell’università di Baghdad, in giacca cravatta e occhialini. Il secondo sosteneva che la terra girasse attorno al sole, mentre il primo era pronto a giurare il contrario. All’argomentazione “Le osservazioni dirette e i calcoli lo dimostrano”, il vecchio si limitò a rispondere “Non riconosco questo vostro metodo, per me l’unica fonte attendibile è quel che c’è scritto nel Corano”. Un po’ estremo, in effetti, ma questo dimostra quanto sia importante costruire un linguaggio comune, sempre. Perché se non esiste una terra condivisa sulla quale confrontarsi, se non facciamo uno sforzo per gettare dei ponti di mediazione tra le sponde opposte, se prima di qualunque dialogo non ci impegniamo per creare un capitale comunicativo condiviso, non c’è differenza tra un dialogo fra due uomini che parlano la stessa lingua e uno fra un italiano e un cinese. Ho pensato alle teorie che sostengono l’inconciliabilità delle diverse culture, alla paura xenofoba che serpeggia in tutta l’Europa. Ma come si fa anche solo a pensare di aprire la porta a un dialogo se nemmeno si prova a trovare dei punti di contatto, se non si prova a lanciare delle basi condivise per la comunicazione, se ognuno si arrocca sulle proprie posizioni, uno con gli occhi fissi sul Corano, l’altro con lo sguardo incollato a un telescopio?

Bisogna andarsene in un paese straniero per capire l’importanza della comunicazione, per capire quanto in fondo dipendiamo da quello che possiamo dare agli altri, e che gli altri possono darci.

Avevo intenzione di parlare dell’intera settimana, ma mi fermerò a queste considerazioni, riservando il resto per i prossimi giorni (e finite le questioni burocratiche dovrei riuscire ad aggiore più spesso il blog): mi rendo conto che il testo diventerebbe troppo lungo da scrivere e da leggere. E oltretutto è tardi, sono nel mio nuovo appartamento, lontano dalla strada, che dà su un giardino. Dopo una settimana di assuefazione al rumore di motori e clacson, il rumore di grilli e cicale concilia il sonno, che credo di essermi meritato dopo sette giorni di attività inusitata, a sette giorni dalla mia “seconda nascita” in terra asiatica.

Il primo ricordo cosciente che ho della Cina è una di quelle immagini che conserviamo dell’infanzia, dei momenti che, per qualche motivo, ci portiamo dentro per tutta la vita: una frase, un’immagine, un odore. Secondo dei meccanismi del tutto inesplicabili (ma di sicuro qualche psicologo crede di aver trovato una spiegazione) qualche lampo dei nostri primi anni resta nello sottobosco della nostra immaginazione, e torna quando meno ce l’aspettiamo, rivendicando a piene mani la sua parte nelle decisioni che siamo convinti di aver preso così, di nostra spontanea iniziativa, e magari in maniera affrettata.

Il primo ricordo che ho della Cina – non della Cina come qualcosa di reale e concreto, come un paese, un popolo, una nazione, ma della “Cina” come “idea” – ha risalito la china della mia memoria qualche giorno fa per caso, senza nemmeno che andassi a cercarlo. È stato quando ho realizzato che stavo per prendere un aereo che mi avrebbe portato dall’altra parte del mondo. E qui mi son visto comparire davanti, all’improvviso, un cartone animato in cui un piccolo topo che, per sfuggire a un gatto, si mette a scavare con un minuscolo badile e, scava che ti scava, spunta “dall’altra parte della terra”, in un paesaggio pieno di pagode dove un gatto e un topo – una parodia con gli occhi a mandorla – si rincorrono lungo quella che poi scoprii essere la muraglia cinese.

È un’immagine curiosa, e la sua riscoperta mi ha divertito molto perché racchiude in sé una serie di considerazioni interessanti sul modo “occidentale” di considerare la Cina, e forse rappresenta anche uno dei motivi che mi hanno spinto a decidere – con un colpo di testa estemporaneo che mi è del tutto inusuale – di imbarcarmi sull’aereo nel quale mi trovo adesso per restare un anno intero in un paese straniero.

Si dice che per formarsi un’opinione su una persona siano sufficienti 5 secondi, e io – che credo di non essermi quasi mai sbagliato andando “a fiuto” – mi ci trovo del tutto d’accordo. Perché non potrebbe essere lo stesso con tutte le “idee”? In fondo, salvo in rare occasioni, ci basta annusare un ragionamento per capire se è della nostra misura o se ci è del tutto estraneo: spesso è proprio il nostro successivo ragionare pragmatico a farci cambiare idea e a farci commettere gli errori più maldestri.

Fatto sta che il mio primo contatto con l’ “idea-Cina” è stato un topo in fuga da un gatto, che scava fino a spuntare dall’altra parte della terra.

E in effetti nel nostro immaginario collettivo la Cina rappresenta proprio un’antitesi culturale, un “altro” diametralmente opposto, un mondo così distante che per essere raggiunto necessita di una pala, tanta pazienza e l’attraversamento del nucleo terrestre. È una distanza psicologica, più che geografica. Me ne sono reso conto nelle ultime settimane: quando parlavo a qualcuno dei miei progetti – e, per costringermi a rispettarli, ne ho parlato con chiunque mi capitasse a tiro, trasformando in alleato il mio peggior nemico: l’orgoglio – la reazione dei più è stata di un genuino stupore, di quello stupore che riserveresti a uno che ti ha appena annunciato di voler scalare il K2. Uno stupore che – ma forse è una mia impressione – non percepisco nei confronti di chi parte per gli Stati Uniti o per l’Australia, che pure si trovano altrettanto – se non più – distanti di Pechino.

Per la Cina abbiamo forse un po’ tutti una sorta di timore reverenziale misto a disprezzo, timore per un paese che secondo tutte le previsioni è destinato a diventare la prossima superpotenza mondiale, disprezzo perché, in fondo, anche i più tolleranti e aperti degli occidentali si ritrovano a coltivare nel profondo il germe della superiorità culturale. E allora, chi per i diritti umani, chi per le regolamentazioni economiche, chi per la qualità del cibo o il sistema monopartitico, ognuno conserva in cuor suo la convinzione che la Cina sia nonostante tutto sempre un passo indietro.

Se queste convinzioni siano legittime o meno, ancora non lo so. Quel che so è che sono dentro un aereo diretto a Pechino, e che se guardo fuori dal finestrino vedo soltanto nuvole e, più sotto, qualche lembo russo di tundra (o questa è la steppa?). E che forse sono qui anche perché lo sceneggiatore di qualche cartone animato ha deciso che un topo doveva fare capolino nei pressi della Grande Muraglia.

Perché come lui, nonostante i chilometri che mi separano da terra, ho deciso di scavare. Come lui, pur senza una pala tra le mani, ho sentito la necessità di andare a fondo, e non perché sia alla ricerca, ma piuttosto perché ho sentito il bisogno impellente di allontanarmi da qualcosa. Un gatto nel suo caso, qualcosa di indefinito nel mio. Talmente indefinito che ancora fatico a metterlo a fuoco, e se mai riuscirò anche solo a capire cos’è questa sagoma informe che ancora adesso è appollaiata sull’ala dell’aeroplano, vorrà dire che la mia è stata una decisione vincente.

Con il mio temperamento da anarchico orgoglioso sono sempre stato convinto che chiunque può essere felice e soddisfatto dovunque, che basta imparare a vivere per stringere in mano le chiavi di ogni luogo, vicino o lontano. Negli ultimi anni mi sono ricreduto: ogni angolo di terra ha la sua peculiare morfologia, un viso proprio, con le sue rughe, le sue cicatrici, i suoi sorrisi. A creare l’essenza di un luogo è la sua geografia, il suo clima e, specialmente, le persone che lo abitano: nessuno è un’isola, e tutti condizionano e sono condizionati dall’essenza dei luoghi, che in una sorta di sintesi collettiva – tra uomo e natura, tra uomo e uomo – conquista una propria personalità. Un luogo è una rete fittissima di emozioni e aspettative collettive che gli individui allo stesso tempo creano e subiscono. È ridicolo pretendere che, dopo aver creato questi spaventosi noduli di umanità che sono le città, gli individui possano sfuggire alla loro influenza. Ed è altrettanto ridicolo pensare che un posto valga l’altro per vivere una vita, esattamente come lo è pensare che potremmo andare d’accordo con qualunque persona che cammina su questa terra.

E allora, tanto vale farsi guidare dall’istinto e dal caso, specialmente se, come nel mio caso, la congiura delle casualità sembra davvero voler tracciare una strada, o meglio precluderne altre.

Dopo aver passato tre anni a detestare la città nella quale ho vissuto, l’idea di andare “altrove” si è fatta tangibile. E poi basta poco per darti una spinta in una direzione imprevedibile.

Uno stage nella redazione di un giornale che ti fa capire che, forse, quella di studiare giornalismo non è la tua strada. Una e-mail letta troppo di sfuggita in dormiveglia che brucia la tua opportunità di lavorare a Londra per un anno. Il riordino di uno scaffale che ti fa scoprire un libro comprato anni fa e mai letto. Tiziano Terzani, un reportage dall’Est Asiatico.

Abbiamo l’abitudine di considerare le vicende nelle queli ci troviamo invischiati come “buone” o “cattive”, come esperienze “positive” o “negative”, e non ci rendiamo conto che il nostro “oggi” è un mosaico composto da ogni singolo tassello del nostro vissuto, anche se spesso lo realizziamo solo a posteriori. A volte ci guardiamo tra le mani e abbiamo l’impressione di aver commesso mille errori, di aver raccolto solo sabbia, e facciamo fatica a concepire che c’è qualcosa oltre il “semplice” libero arbitrio, ci sono dei meccanismi (ma si può chiamare meccanismo qualcosa che non risponde ad alcuna legge?) che ci conducono per mano proprio lì dove è il nostro “oggi”. Proprio là, dritti dove dovremmo essere in questo preciso momento, e in nessun altro luogo.

Il mio, adesso, è su un aereo che sorvola la Russia, diretto a Pechino. Il sole è tramontato oltre la steppa e le nuvole. Forse dormirò fino all’arrivo.